Un intervento al Convegno del “Coraggio della pace” del 25-28 settembre a Sesto Fiorentino. L’Europa deve diventare una comunità di popoli che comprenda la Russia
Mentre vengono meno le garanzie del diritto internazionale, sta cambiando il quadro politico del mondo, e mentre nuovi Paesi entrano in gioco, a me pare che l’evento scatenante per il quale dobbiamo provvedere a un nuovo assetto delle relazioni internazionali è la fine dell’Occidente. È una fine morale, per il tradimento che hanno subito i suoi valori pur tanto orgogliosamente conclamati, ma prima ancora è andato in frantumi la sua stessa configurazione fisica, quale eravamo abituati a considerare guardando una carta geografica: infatti sul lato occidentale atlantico hanno fatto secessione dall’Occidente gli Stati Uniti; nello stesso tempo è venuta meno al Sud quella preziosa proiezione dell’Occidente oltre il Mediterraneo, nel Medio Oriente, che è Israele, a causa del genocidio con cui Israele è venuta ad isolarsi da tutto il mondo civile come si è visto nelle straordinarie manifestazioni di protesta di lunedì scorso. È proprio la fusione tra le due politiche sciagurate di Trump e di Netanyahu. l’evento più eversivo dell’attuale quadro mondiale: ed è proprio questo che pone oggi all’Europa e a noi qui riuniti il drammatico problema del che fare.
Il primo fattore di crisi è la scelta anarchica di Trump, il “make America great again”, che vuol dire mettere gli Stati Uniti fuori e sopra l’ordine mondiale. Un Occidente senza gli Stati Uniti d’America era impensabile fin qui, tanto più che a partire dalla fine della seconda guerra mondiale essi se ne erano assunti la guida. Ma in realtà il distacco degli Stati Uniti dall’Occidente appartiene a un processo che è cominciato già molti decenni fa a partire dalla caduta del muro di Berlino, Gli Stati Uniti sono usciti dall’Occidente per mettersi al di sopra di esso quando con l’avvio del cosiddetto nuovo secolo americano hanno concepito e perseguito il progetto di istituire una sovranità mondiale americana, sia sulla base dell’ideologia secondo la quale la sicurezza nazionale degli Stati Uniti risiedeva nel dominio del mondo, sia sulla base della presunzione, enunciata dal Consigliere per la Sicurezza nazionale americana Zbigniew Brzezinski, secondo la quale non vi fosse altra alternativa che l’America all’anarchia globale. Questa dottrina fu formalizzata dopo l’attacco alle due Torri 17 settembre. 2002 nel documento sulla strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, poi reiterato fino alla versione ultima di Biden e di Lloyd Austin del 2022. Questa strategia proclamava che c’era un unico modello accettabile per tutte le nazioni, che veniva definito con tre termini: libertà, democrazia e libera impresa. Si trattava perciò di un modello politico. che era quello dello Stato liberale, un modello istituzionale che era quello delle democrazie occidentali è un modello economico, che era quello del capitalismo privatistico. Ogni alternativa, ogni pluralismo di dottrine e di sistemi era escluso. Poi il documento affermava l’unicità e insuperabilità degli Stati Uniti i quali, diceva, godono di una potenza militare senza pari e di una grande influenza economica e politica, e questa unicità doveva essere mantenuta per sempre. Diceva, infatti, il documento: “Le nostre forze (armate) saranno abbastanza forti per dissuadere potenziali avversari dal perseguire un potenziamento militare nella speranza di sorpassare o eguagliare Il potere degli Stati Uniti. Nessuno potrà mai pensare non solo di poter superare, ma nemmeno di eguagliare il potere americano. Mai più una potenza come l’Unione Sovietica, ma anche mai una potenza come la Cina o come l’Unione europea. In questo contesto, il documento enunciava la dottrina della guerra preventiva – la migliore difesa è una buona offesa – e dichiarava che gli Stati Uniti avrebbero agito anche da soli. C’era una rivendicazione della solitudine americana. E quando il documento citava le alleanze, le organizzazioni internazionali con le quali gli Stati Uniti intendevano collaborare, citava l’Organizzazione mondiale del commercio, l’Organizzazione degli Stati americani, la NATO. Ma la NATO non era più al primo posto. Era un’alleanza fra tante. E in un altro punto del documento si citavano come distinti gli Stati Uniti e la comunità euroatlantica, che nel frattempo veniva estesa all’Indo Pacifico. Dunque la novità era che gli Stati Uniti non erano più l’Occidente. Siamo abituati a parlare degli Stati Uniti e dell’Occidente come di una cosa sola, anzi a parlare dell’America come dell’espressione stessa dell’Occidente. Ma da allora in poi non sarebbe stato più così, l’America si poneva come altro dell’Occidente. Non sarebbe più stata da una parte del mondo, ma al di sopra del mondo come il sovrano universale di una geografia globale di cui lo stesso Occidente era solo una parte; e la partita diventava una competizione strategica, nella quale l’Occidente era incluso che, come ultimi nemici da debellare, aveva la Russia e la Cina. E tutto questo è continuato negli anni seguenti, ed è giunto fino all’attuale fase della sfida con la Russia considerata già vinta all’irrompere della guerra dell’Ucraina. Ma è a questo punto che Trump in polemica con Biden si è accorto della follia di questo disegno, perché tra folli ci si intende, e ha fatto lo strappo con la Nato e con l’Europa pensando che il resto del mondo invece che conquistarlo se lo poteva comprare. La differenza è che l’attuale progetto di Trump non ha la perversa lucidità di quello perseguito dai due partiti americani fin qui.
Il secondo fattore di crisi è l’analogo strappo che ha subito il progetto di Israele riguardo alla soluzione della questione palestinese. Il compito che fin dal suo accesso al potere Netanyahu ha perseguito come sua missione per lo Stato di Israele è stato quello di sventare l’ipotesi della costruzione di uno Stato palestinese e, come ha detto in un suo recente appello alle Forze armate israeliane, si è ora reso possibile giungere “fino alla vittoria totale” da conseguire a Gaza perché “ciò che è cominciato a Gaza deve finire a Gaza”. L’occasione da cogliere, ora o mai più, è stata il criminale attentato di Gaza a cui si è risposto con “l’apertura delle porte dell’inferno” con la incondizionata malleveria di Trump. Anche questo non è arrivato all’improvviso: prima di giungere a questo punto finale il primo ministro israeliano nel 2018 aveva provveduto all’adozione della Legge Fondamentale dello Stato di Israele, in cui veniva formalizzato lo Stato monoetnico in cui era riservato al popolo ebraico “il diritto esclusivo” all’”autodeterminazione nazionale”, cioè ad avere uno Stato, nell’intera “Terra di Israele, patria storica del popolo ebraico”, portando a compimento l’opera di Mosè e dei “carri di Gedeone”.
Ma perché questa soluzione finale è arrivata sotto la forma del genocidio? Non è che un genocidio si decide da un giorno all’altro senza ragione. Fino alla guerra del 1967 l’obiettivo dello Stato ebraico dal mare al Giordano non era perseguibile a causa della spartizione operata dall’ONU con un tratto di penna sulla carta geografica della terra di Palestina, ma dopo la conquista della Cisgiordania e di Gerusalemme nel 1967 questo obiettivo si rendeva possibile sia pure sotto l’eufemismo dei “Territori occupati”. Qui nasceva però il problema di Gaza, perché mentre in Cisgiordania con l’irruenza dei coloni e la repressione dell’esercito il controllo del territorio poteva esercitarsi indiscriminatamente fino alla vera e propria annessione ora annunciata, Gaza esclusivamente abitata dalla popolazione palestinese restava come una spina nel fianco dell’Israele totale. Qui si sono allora scontrate due opzioni: la prima è stata nel 2005 quella adottata dal primo ministro Sharon ma contestata dai rabbini, ed è consistita nel ritiro di tutti i coloni dalla Striscia per evitare lo scontro diretto tra le due popolazioni e confinarvi i palestinesi privati per sempre di un loro Stato; e la seconda, fallita questa per il rifiuto di Hamas di accettare la sconfitta, l’opzione patrocinata da Netanyahu della totale acquisizione della Striscia di Gaza e l’estromissione della popolazione palestinese. Ed è questa opzione che, non potendo realizzarsi attraverso un esodo volontario dei palestinesi, si è risolta nel genocidio. Netanyahu aspettava (o preparava, secondo le accuse) l’occasione per realizzare il suo disegno, e questa è arrivata il 7 ottobre, con una efferatezza che forse non era prevista né da una parte né dall’altra. Ma radere al suolo la Striscia ed espellerne gli abitanti palestinese non è una cosa che si fa in poche settimane: ci sono voluti due anni e il “lavoro” ancora non è finito. Per questo Netanyahu ha bisogno ancora di tempo, e perciò lascia il più a lungo possibile gli ostaggi in mano ad Hamas, usandoli come legittimazione per continuare a tenere aperto l’inferno; e la signora Meloni non capisce che porre la condizione della restituzione degli ostaggi per il riconoscimento dello Stato di Palestina, fa il gioco di Netanyahu.
Ed è qui l’altra tragedia con cui si consuma la fine dell’Occidente, perché come tutti diciamo nel DNA dell’Occidente c’è lo straordinario valore della tradizione ebraico-cristiana, e quella che viene travolto nel genocidio di Gaza è proprio questa, è il credito di cui godono le tre promesse di salvezza che da Gerusalemme dovrebbero invadere il mondo a partire dalle tre religioni che si rifanno al Dio di Israele. Se Dio cambia campo, se il Dio dell’amore e della misericordia che gli Ebrei hanno avuto la missione di annunciare al mondo passa dal campo delle vittime e dei crocefissi al campo dei carnefici e dei Caini, l’Occidente è perduto. Per questo è stato grave che il Papa abbia ricevuto Isaac Herzog proprio nel pieno del genocidio.
È a questo punto che si pone la domanda su che cosa ci resta da fare. Intanto c’è la flottiglia che rischia la sua incolumità senza che la Meloni capisca il perché, c’è l’eroica resistenza delle comunità cristiane con i patriarchi Pizzaballa e Teofilo. Ma la domanda soprattutto riguarda l’Europa. Che cosa dovrebbe fare l’Europa? Prima di tutto non dovrebbe subentrare nelle guerre che gli Stati Uniti non vogliono più fare. Se la guerra d’Ucraina è stupida per gli Stati Uniti, è stupida anche per l’Europa, ed è criminale volerla continuare per stare dietro a Zelensky. Ma soprattutto l’Europa dovrebbe smettere di pensare all’Occidente come contrapposto al resto del mondo in termini di valori. La formula “l’Occidente e il resto del mondo” tanto cara al Corriere della Sera è la formula dell’imperialismo. Il mondo non è diviso così, l’Occidente è finito: i punti cardinali devono tornare a rappresentare i punti cardinali, i valori vanno ricostruiti da Washington a Vladivostok, da Parigi a Shangai, da Ho Chi Minh ville, alla “fine del mondo” che sta a Buenos Aires e a Rio de Janeiro. E l’Europa è parte e motore di tutto questo, ma non l’Unione Europea come oggi la conosciamo, che è caduta in mano a governanti ottusi hobbesiani e clausewitziani che si credono Churchill o Napoleone: l’Europa se vuole giovare al mondo e ai suoi equilibri deve essere piuttosto una grande comunità non statuale di popoli e di ordinamenti, che comprenda la Russia, che non a caso fu chiamata la Terza Roma, come interna alla tradizione umanistica europea e alla comunione ortodossa. È il momento di tornare ai valori umani universali, ebraici e cristiani, di tornare ai lumi della ragione, di tornare alla giustizia, come gloria del diritto, che è stato il vero vanto dell’Occidente, è il momento di tornare a pensare che “il prossimo” è veramente il prossimo, compresi gli immigrati, quelli “della nostra stessa carne”, come diceva il profeta Isaia.


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