Prendere sul serio la speranza in un’umanità che può affidarsi alla fraternità, non cedere al cinismo e alla disperazione, non farsi la guerra.
Sergio Labate
È strano – o forse non lo è per nulla – come a poche ore dalla sua morte, Papa Francesco sia stato immediatamente riportato dentro la maschera che suo malgrado indossava. Dentro le mura, non più fuori nel mondo. Invertendo subitaneamente un movimento che aveva scelto e che ha stupito tutti fin dall’inizio, una forma di spazientita rivendicazione del suo essere soprattutto un uomo di fede. Un uomo, tra gli altri e nel mondo. Senza i lussi, senza la regalità di un sovrano che vive e che, alla fine, addirittura muore. Adesso sono tutti d’accordo con lui, adesso che non può più spazientirsi e possiamo normalizzare le cose. È morto il pontefice, il sovrano.
Era un uomo di fede. Se c’è qualcosa che mi colpisce delle nostre società post-secolari è proprio la scarsità di veri uomini di fede. Ci sono tanti atei devoti, altrettanti uomini “religiosi”. Ma di uomini che siano illuminati e rasserenati dalla loro fede, ne conosco sempre meno. Non so nemmeno più dove cercarli, se non in qualche silenzioso monastero o in qualche tumultuosa missione. Perché ricordo questa cosa? Perché è per rispetto alla luminosità della sua fede che stasera non riesco a non coltivare anche un sorriso. Da non credente, sento che vale la pena dare credito alla sua fede, molto più che alla mia incredulità. Noi scettici, in fondo speriamo che abbia ragione lui. E che dentro la morte, si possa fare esperienza della grazia. La grazia, un’altra categoria teologica che noi umani increduli non sappiamo maneggiare, non sappiamo che farcene. Eppure in questi anni spesso ho pensato – vergognandomene anche un po’ – che il suo venire inaspettato e quasi dalla fine del mondo, portando la Chiesa cattolica dall’essere sentinella della conservazione a essere avanguardia delle rivendicazioni progressiste non potesse che dirsi nei termini della grazia. Nulla nella storia della Chiesa faceva pensare a un pontefice in grado di assumere con chiarezza posizioni sociali e politiche così radicali. Un pontefice in grado di “dire la verità” al mondo su se stesso. E questo suo dire la verità si scontrava con la storia, col suo procedere imperterrita verso il peggio, verso la demolizione di ogni pietà per gli oppressi dell’umano. Per i credenti è stato semplice trovare un principio di causalità nello Spirito Santo. Ma noi increduli ci siamo trovati un alleato, senza capire il perché e senza che nessuna dialettica della storia potesse in qualche maniera spiegarcelo.
Certo, questa alleanza politica e sociale ha convissuto con una ferma ostilità d’ordine morale. Al di là delle aperture alle persone e al rispetto per la loro dignità, Papa Francesco ha mantenuto il punto quanto alle scelte su aborto, omosessualità, matrimonio, uguaglianza di genere; è stato per certi versi riluttante sullo scandalo della pedofilia dei sacerdoti; ha fatto poco per democratizzare le istituzioni ecclesiali e per disintossicare la gestione del potere da un patriarcato angusto e inaccessibile. Ma tutto ciò in fondo ci ha anche rassicurato circa le sue intenzioni: non era una spia che cercava di impossessarsi di battaglie della sinistra per avocarle a sé, per strumentalizzarle. La sua sincerità era garantita anche dalla sua estraneità, che in fondo aveva anche dei tratti fisiologici. Abbiamo combattuto le stesse battaglie, ma non c’è stato bisogno né che lui si presentasse né che noi lo riconoscessimo in modo diverso da ciò che era realmente, un uomo di fede.
Altri più esperti di me chiariranno la genealogia del suo progressismo. Bergoglio apparteneva alla teologia popolare, una corrente che in America Latina nacque quasi per arginare il successo della teologia della liberazione. Non per contestarlo, ma per integrarlo. Recuperandone le istanze più sociali e minimizzandone forse la radicalità teologica. Non un conflitto, ma una “correzione fraterna”. A cui dobbiamo probabilmente sia la sua prossimità con la sinistra sia la sua irriducibile differenziazione. Tutto ciò che abbiamo condiviso con lui, per lui in fondo non era altro che il Vangelo e non richiedeva alcuna correzione di rotta teologica, nessuna simpatia per Marx.
La maggior parte dei commentatori ricordano tre questioni su cui si è manifestata questa prossimità senza mimetizzazioni o sconti: ecologia, migrazione, guerra. E non c’è dubbio che queste questioni siano state da Papa Francesco valorizzate nel dramma di un mondo che prendeva sempre più coscienza che attorno a esse si stesse giocando la propria sopravvivenza e la propria umanizzazione. Ma lo spessore teologico di Francesco era tale da rivendicare per ciascuna di queste questioni una radicalità cristiana, niente affatto una semplificazione. Per fare solo un esempio: la Laudato si, pubblicata nel 2015, è un’enciclica papale che scommette di essere al contempo una meditazione teologica sul creato e una riflessione filosoficamente originale sulla responsabilità per la terra. Scommesse vinte entrambe. Allo stesso modo tutte le riflessioni, le aperture e gli appelli disperati sulle migrazioni erano al contempo meditazioni teologiche sull’accoglienza evangelica e riflessioni antropologiche sull’homo viator, sulla necessità dell’essere umano di viandare (e d’essere accolto in quanto tale). Per non parlare poi della guerra e della sua disperata e tenace insistenza di fronte alla regressione bellica degli ultimi anni.
Accanto a queste tre questioni ne aggiungerei anche un’altra: il pauperismo o, meglio, l’incrollabile e non formale preferenza per i poveri. Anche in questo caso, non è difficile rintracciare i riferimenti biografici e la fedeltà evangelica: le tragedie economiche della storia argentina da un lato, una teologia evangelica per cui la povertà è uno scandalo ma è anche il segno di una conversione spirituale, dell’uomo che vive concentrato sulle cose essenziali. Ma in quella scelta anche estetica c’era soprattutto un certo modo di fare i conti col potere, dunque con la Chiesa come istituzione di potere. Tutti ricordiamo lo stacco tra l’ostentazione liturgica di Ratzinger e l’umiltà delle forme di Bergoglio. Abbiamo riscoperto la dignità del povero perché abbiamo imparato la sua lezione per cui la povertà non è la mancanza di potere, ma il modo più umano e dignitoso di resistergli, soprattutto nel tempo del lusso sfrenato e dei super-capitalisti al potere.
Ma la vera novità – ciò che per certi versi continua a essere un mistero – è quella di esser stato contemporaneamente il Papa dei credenti (quasi tutti, non tutti) e anche di coloro che mai avrebbero sognato di aver bisogno di un Papa, dei non credenti. Di essere diventato l’unica figura di riferimento credibile non solo per coloro che ne riconoscevano il ruolo ecclesiale, ma anche per quelli che non potevano non riconoscerne la legittimità morale di unica voce che urlava nel deserto. Come è stato possibile tutto questo? Che proprio la massima autorità religiosa sia stata l’unico vessillo per chi credeva in un mondo più giusto senza la vigilanza di una fede? Le mie ipotesi di risposta sono due.
La prima è quella più interna al nostro modo disperato di pensare la politica nella crisi della modernità. Credo che in queste settimane sarà la più gettonata. Bergoglio avrebbe rappresentato davvero – a partire dalla contraddizione radicale tra la sua radicalità e la deriva di un mondo sempre più diseguale, ingiusto, crudele – l’ultimo argine alla barbarie, l’ultima voce nel deserto che avanza, l’ultimo potere che frenava la fine del mondo. L’ultimo katechon, finito il quale non resta che il disperato dissolversi delle forme ordinate di un mondo e l’anarchia del male. Non poteva che essere altrimenti, a ben pensarci. Solo un Papa poteva essere all’altezza del compito teologico politico che la sinistra si è autoassegnato negli ultimi decenni, l’ultimo rimastole dinanzi alla dissoluzione della Grande Storia del Novecento. Un Papa che – se non riusciamo da laici a definire nei termini della grazia – certo possiamo definire nei termini di uno stato d’eccezione rispetto alla deriva del mondo. Per una sinistra a cui non rimane altro che arginare la disperazione necessaria, Papa Francesco ha rappresentato l’ultima dilazione del fallimento già alle porte. Non ci ha salvato, ma ci ha concesso del tempo. Ora le mura non potranno che crollare, ora davvero non resta che l’apocalisse che viene: la fine della speranza come politica e la fine della speranza come religione.
La seconda è forse più rispettosa della sua eredità e ci dice qualcosa non tanto su “da dove veniamo” – certo, veniamo dal Novecento, dalla trasformazione della sinistra in teologia politica, dalla sua conversione da Marx a Schmitt – ma su “dove possiamo andare” adesso. A me pare che la lezione più grande di Bergoglio sia stata non tanto di averci salvato dal male, ma di aver riportato al centro del discorso politico una forma dimenticata di fiducia nell’umanità e nella sua storia. Da questo punto di vista, se dovessi utilizzare un’immagine letteraria, direi che nessuno più di Papa Francesco sia stato una figura distante da quella del Grande Inquisitore, cioè la personificazione per eccellenza del potere che ha come unico compito quello di frenare il male intorno a noi, di salvarci dal male piuttosto che d’elevarci al bene.
Era un uomo di fede, Bergoglio. Ribolliva in lui la vera radice del cattolicesimo politico novecentesco: la fiducia nella modernità e nell’uomo che diventa adulto. Il cattolicesimo post-conciliare, che ha smesso di fare la guerra alla modernità e alla secolarizzazione e ha invece riconosciuto nelle conquiste della rivoluzione francese un guadagno di umanità che avrebbe contribuito a restituire la fede alla propria dimensione essenziale. Non modernità o cristianesimo, ma modernità e cristianesimo. Europa, diremmo oggi che proprio quell’Europa non si appalesa più. Ed è stato proprio un non-europeo a ricordarcelo. A ricordarci che ciò che contraddice l’umanità dell’uomo è l’individualismo che atomizza le vite e non ci rende capaci di fraternità, è l’economia che desacralizza l’umanità e cancella così l’essenza del cristianesimo: il Dio fatto uomo, il Dio che si fa compagno e fratello dell’uomo, il Cristo del cristianesimo. Non era il potere che frena l’inevitabile fine del mondo, Francesco. Era il potere che spera, ancora e nonostante tutto, che l’essere umano possa trovare un modo per non farsi la guerra. Forse anche a sinistra, dobbiamo scegliere. Se trasformare subito la sua eredità in quella del grande inquisitore. Oppure se prendere sul serio la speranza. Non tanto in un Dio cui molti di noi hanno smesso di credere. Non ci compete. Ma piuttosto in un’umanità che, persino nella secolarizzazione, può non sentirsi orfana, affidarsi alla fraternità, non cedere al cinismo e alla disperazione. Modernità e cristianesimo. Un non europeo che ci ricordava l’unica speranza rimasta per l’Europa.
C’è un’immagine di Papa Francesco che non riesco a dimenticare. È recente, risale ai giorni del suo ultimo ricovero. Dei suoi giorni sapevamo solo un paio di cose: che pregava e che ogni sera telefonava al parroco di Gaza. Cristianesimo e modernità, appunto. Incarnate in un uomo di fede che non ha smesso, nel dileguare della sua vita, di credere nella speranza della sua fede e di credere nella forza della fraternità con gli oppressi. Quelle telefonate a Gaza erano le preghiere laiche di un morente per i viventi. Dove c’è vita offesa, c’è vita difesa. Non è questo ciò che noi speriamo? Noi increduli, che non sappiamo sperare altro ma che, oggi, ci affidiamo alla sua umanità e anche alla sua fede.
(da “Volere la luna”)
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